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2022-09-10 05:44:01 By : Mr. Bond Sahw

Il blog della Rivista Trimestrale sui problemi dell'energia

Dopo mesi dacché la Russia ha iniziato a ricattarci col gas, la soluzione sulla bocca di tutti continua a essere l’immaginifico price cap, sebbene nessuno ne spieghi la fattibilità tecnica. Altrettanto citata ma assente è la solidarietà energetica, con Olanda e Norvegia che paiono non disdegnare i vantaggi degli attuali prezzi del gas. Nel frattempo, spuntano nel dibattito elettorale nostrano proposte estemporanee, mentre Gazprom continua a giocare al gatto col topo.

La peggior cosa che capita di sentire o leggere dopo i nuovi picchi dei prezzi del gas è la sorpresa dei nostri governanti dopo aver sostenuto che l’Italia aveva fatto di tutto e di più, che era messa meglio degli altri paesi, che non vi era quindi alcun motivo per preoccuparsi. Non ultimo: che il gas russo era ormai un incubo del passato perché ne avevamo più che dimezzato la dipendenza.

Da chi o cosa il governo traesse questi convincimenti non è dato sapere. Certo non dai mercati che sicuramente ne sanno di più dei governi. Il 22 agosto i prezzi del gas hanno raggiunto sul PSV italiano gli 82 dollari per MBtu. A metà 2020 erano a 2 dollari. Incrementi che si riflettono sui prezzi dell’elettricità.

Come il gatto col topo

Lo strappo dei prezzi è dovuto all’ennesimo annuncio di Gazprom di una strumentale chiusura dal 31 agosto al 2 settembre del gasdotto Nord Stream 1, (oggi utilizzato per il 20% della capacità con una sola turbina operativa).

Come il gatto col topo, Gazprom prima promette dando adito ad una qualche speranza di miglioramento della situazione, poi annuncia il contrario alimentando il panico sul mercato.

Lo stato dell’arte è che, nonostante le mille decisioni della Commissione, gli affannosi tentativi dei governi di sostituire il gas russo, la situazione non è sostanzialmente cambiata dal maledetto 24 febbraio. Perché due sono le verità: la prima, che siamo ancora ostaggi della Russia; la seconda, che permane la scarsità di offerta di gas a livello mondiale.

E ci vorranno anni per venirne fuori. Per intanto si continua a dibattere – dopo molti mesi dacché si iniziò a parlarne! – sulla fattibilità tecnica della panacea di tutti i mali: il tetto al prezzo del gas, o price cap per dirla in modo raffinato.

Che si dovrebbe applicare, si sostiene da ultimo, non solo al gas russo ma anche a quello dell’Olanda, Paese membro dell’Unione che non intende accrescere la sua produzione interna di gas, nonostante le immani riserve di cui dispone. Similmente a quanto sta decidendo la Norvegia che ha ridotto le esportazioni di gas per imprecisate ragioni di manutenzione.

La verità è che entrambi questi paesi stanno imparando dalla Russia su come speculare sul mercato del gas per trarne vantaggio a dispetto degli altri paesi.

Con la Commissione che continua a girarsi dall’altra parte. Una chiara dimostrazione dell’assoluta mancanza di solidarietà energetica tra i paesi europei, che la Commissione Europea non è riuscita ad attivare nonostante i mille documenti che su di essa dovrebbero far conto.

Il coltello dalla parte del manico

Ebbene, se da un lato l’Europa minaccia la Russia con la spada del price cap dall’altra trema all’idea che possa ridurre sino ad azzerare le sue pur già ridotte forniture, illudendosi che di fronte a quella spada Mosca abbassi sommessamente il capo accettando di ridurre i prezzi al livello deciso dai burocrati di Bruxelles o di ridurre la sua produzione (magari preferendo bruciarla alla torcia).

Continuiamo a non voler accettare che il coltello dalla parte del manico è nelle mani di Mosca illudendoci che un’Europa solo nominalmente unita possa tenerle testa e che le mille sanzioni ne abbiano ridotto i ricavi energetici che anzi, grazie ai maggiori prezzi, sono aumentate.

Nessun problema comunque anche qualora il calo delle forniture russe dovesse acuirsi. Saremmo infatti in grado grazie all’azione di un “comitato di emergenza” (come affermato dal ministro dimissionario Cingolani sul Corriere della Sera) a dover fare “del risparmio”, mentre sarebbe meglio dire che saremmo costretti a razionare le forniture di gas e temo anche dell’elettricità.

Mentre le cose sono ancora al palo per l’avvio dei nuovi rigassificatori che il ministro spera di “mettere a sistema entro i primi mesi del 2023” anziché del corrente anno come inizialmente aveva promesso.

Chi paga per i prezzi amministrati?

Se di fatti concreti se ne vedono pochissimi, nel dibattito elettorale si leva un unisono coro circa la necessità di limitare i costi dell’energia cui si alternano voci soliste che intonano estemporanee proposte: dal ritorno al nucleare di Salvini, ai prezzi amministrati dell’elettricità di Enrico Letta, dimentico dei pessimi risultati che essi dettero in passato.

Perché il punto è: se questi prezzi amministrati (come fissati?) sono inferiori ai costi di approvvigionamento dell’elettricità chi copre la differenza: lo Stato ovvero i contribuenti?

La conclusione è che si stia navigando a vista nella nebbia più fitta aspettando che, direbbe Eduardo de Filippo chiudendo la celebre commedia Napoli Milionaria, “adda passà ‘a nuttata”

 Alberto Clô è direttore della rivista Energia e del blog RivistaEnergia.it. Ha di recente pubblicato il saggio Il ricatto del gas russo per edizioni Sole24Ore

Gas: tutto (non) va ben madama la marchesa, di Alberto Clò, 16 Agosto 2022

Un tetto ai prezzi del gas? 6 effetti collaterali indesiderati secondo EEX, di redazione, 24 marzo 2022

Crisi gas: se l’Autorità smentisce il Ministro, di Alberto Clò, 4 Agosto 2022

Dal “tutti per uno” al “si salvi chi può”: il piano gas UE bocciato dagli Stati, di Francesco Sassi, 27 Luglio 2022

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Impossibile non essere d’accordo con Clò. Va aggiunto per correttezza che la disastrosa uscita dal comparto nucleare ha inciso significativamente sulla criticità del settore energetico, peraltro causata dal fatto che è stata fornita al cittadino un’informazione non solo sbagliata ma terroristica sui disastri avvenuti a Chernobyl ed a Fukushima. Ciò ha portato ad un generale rifiuto nell’accettazione del nucleare nel nostro Paese ma, per onestà, andrebbe fornita un’informazione corretta, partendo da una breve disamina riguardo le modalità utilizzate dai mass media e dal mondo politico nell’affrontare l’argomento e sulle conseguenze del loro atteggiamento. La catastrofe di Chernobyl del 1986 provocò, ovviamente, nel pubblico non specializzato e non solo del nostro Paese, una reazione di rifiuto verso la produzione energetica mediante la fissione dell’atomo, anche perché nessuno dei mezzi di informazione chiarì che non si era trattato di un incidente ma di un pazzesco esperimento. Mentre però negli altri Paesi si cercò di diffondere un’informazione corretta e la comunità scientifica si dimostrò compatta e seria nei confronti della classe politica, in Italia ciò non avvenne ed i politici, in seguito agli esiti scontati di un referendum popolare, impostarono una nuova politica energetica dirottandola verso una diffusione massiccia del gas naturale. Venne così imposta una moratoria di cinque anni, che poi sono diventati trentatre, nell’utilizzo delle quattro centrali nucleari di cui disponevamo –Trino Vercellese in Piemonte, Caorso in Emilia, Latina nel Lazio e Sessa Aurunca sul Garigliano in Campania. Per quanto riguarda il referendum, d’altra parte, va sottolineato che esso non metteva in questione la produzione energetica tramite fissione nucleare (la quale non poteva essere oggetto di quesito referendario, in quanto l’Art. 75 della Costituzione vieta esplicitamente di sottoporre a quesito referendario materie frutto di accordi internazionali. Il motivo per cui non abbiamo votato per l’adozione dell’euro!), ma proponeva tre quesiti piuttosto nebulosi e di difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori. Tali quesiti, in effetti, riguardavano: 1. l’abrogazione delle norme che consentivano al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso non lo avessero fatto le Regioni nei tempi previsti; 2. l’abrogazione dei compensi ai Comuni che accettavano i grandi insediamenti energetici nucleari o a carbone; 3. l’abrogazione della norma che consentiva all’ENEL di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all’estero. Questo nonostante la prima Conferenza Nazionale sull’Energia avesse raccomandato il contrario e nonostante l’allora Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, avesse rassicurato la Comunità Europea sul non abbandono della produzione elettrica per mezzo dell’energia nucleare da parte dell’Italia. Anche dopo l’evento di Fukushima, dove su 18.000 morti solo tre sono avvenuti nelle centrali e nessuno per le radiazioni, è stato promosso un referendum, scritto così male che, prendendolo alla lettera, permetterebbe la riapertura delle centrali. Inoltre, per correttezza, i mass media ed i politici dovrebbero mostrare al cittadino l’impatto sanitario ed ambientale di tutte le fonti energetiche, non demonizzando il nucleare a prescindere. Va anche sottolineato che la moratoria non ha portato ad eliminare dal mix energetico utilizzato dall’Italia l’energia elettrica prodotta per mezzo della fissione, ma l’ha trasformata in un prodotto di importazione! Ma analizziamo brevemente quanto effettivamente accaduto nei tre eventi suddetti: 1) Tree Mile Island. Il 28 marzo del 1979, il blocco una valvola del circuito di refrigerazione secondario del 2° reattore, provocò la mancanza di alimentazione ai generatori di vapore. Questo causò la fermata del circuito primario di raffreddamento del nocciolo con un conseguente aumento di pressione che portò al conseguente blocco della valvola di sicurezza, cosa che causò l’arresto di emergenza ed il conseguente inserimento delle barre di controllo (come previsto dalle norme in qualsiasi tipologia di centrale nucleare, tranne quelle RBMK come vedremo più sotto). Il problema conseguente che causò i danni all’interno dell’impianto fu causato dalla mancata apertura della valvola di rilascio e i tecnici non se ne poterono accorgere, poiché nella strumentazione non vi era un indicatore del funzionamento della stessa. Questo causò la parziale fusione del nocciolo del reattore causando danni significativi allo stesso, rendendolo inutilizzabile, ed al rilascio di 480 PBq di gas nobili e di 740 GBq di iodio 131. Si parlò allora del pericolo derivante dalla presenza di idrogeno, ma questo non rappresentò un problema, poiché gli addetti provvidero puntualmente ad espellerlo dal reattore tramite un meccanismo a valvola. Dopo decenni da quanto avvenuto allora, sappiamo che non vi furono conseguenze sulla popolazione.

2) Chernobyl. Figlio della scelta di una tecnologia nata per fini militari in quanto adatta a produrre plutonio per testate nucleari, il reattore protagonista del drammatico incidente di Chernobyl era del tipo RBMK, acronimo dal russo Reaktor Bolshoi Moshchnosty Kanalny che significa “reattore di grande potenza a canali”. Questo tipo di reattore era impiegato solo all’interno dell’Unione Sovietica (e nel 1986 l’Ucraina ne faceva ancora parte), mentre nei Paesi satelliti dell’URSS venivano utilizzati impianti di tipo VVER (Vodo-Vodyanoy Energetichesky Reaktor) a bassa potenza, simili a quelli occidentali ad acqua pressurizzata. Il reattore RBMK 1000, a tubi in pressione, moderato a grafite e refrigerato ad acqua leggera bollente, ha una potenza termica complessiva di 3200 MW termici che permettono di produrre 1000 MW elettrici. Il disaccoppiamento delle funzioni di moderatore, affidate alla grafite, da quelle del refrigerante, affidate all’acqua leggera (che, contenendo idrogeno, funge anche da assorbitore di neutroni) può generare instabilità intrinseca, nel senso che alla mancanza d’acqua si accoppia un aumento della reattività del sistema (coefficiente di vuoto positivo). I reattori di tipo occidentale BWR (ad acqua bollente: Boiled Water Reactor) e PWR (ad acqua pressurizzata: Pressured Water Reactor) affidano invece all’acqua entrambe le funzioni (moderazione e raffreddamento), tanto che in mancanza d’acqua la reazione nucleare si arresta. L’erogatore di energia nucleare – o “nocciolo” – del reattore RBMK è costituito da un grande cilindro in blocchi di grafite che ha un diametro di 12 metri ed un’altezza di 7 metri. Nella matrice in grafite sono disposti, secondo un reticolo regolare, i canali per l’inserimento delle barre di controllo ed i canali di potenza, tubi in lega di zirconio nei quali sono contenuti gli elementi di combustibile. Negli elementi di combustibile, costituiti da fasci di barrette cilindriche in lega di zirconio contenenti pasticche (pellets) di biossido di uranio arricchito al 2%, ha luogo la reazione di fissione a catena dell’uranio con produzione di neutroni veloci e di calore. L’acqua, spinta dalle pompe di circolazione, scorre nei canali di potenza dal basso verso l’alto alla pressione di circa 70 kg/cm2, affluendo nel nocciolo alla temperatura di 270° C. Uscendo dal medesimo, l’acqua è inviata a quattro grandi separatori di vapore, dai quali la frazione liquida ritorna a fluire nei canali di potenza mediante le pompe di circolazione, mentre il vapore è convogliato ad azionare due gruppi turbina-alternatore da 500 MWe ciascuno. Il vapore esausto scaricato dalle turbine viene condensato e l’acqua risultante, preriscaldata, è rinviata al separatore di vapore tramite le pompe di alimento. Quando il reattore è a regime la grafite ha una temperatura media di 600°C e punte di 700°C, valori inspiegabilmente elevati in quanto superiori alla soglia di reazione aria-carbonio e prossimi alla soglia di reazione acqua-carbonio. Le caratteristiche costruttive di questo tipo di reattore rendono possibile il ricambio degli elementi combustibili con il reattore in funzione, attraverso una gigantesca macchina di carico e scarico alta 35 metri ubicata nella hall superiore del reattore. Tale hall è coperta da una struttura a capriata, che ovviamente non può essere considerata un sistema di contenimento. Al contrario, le centrali occidentali dispongono di un edificio di contenimento formato da strati di cemento al boro ed acciaio ed in condizione di resistere anche alla caduta di un aereo o ad un terremoto. Quanto avvenuto nella notte fra il 25 ed il 26 aprile 1986 all’unità 4 della centrale nucleare di Chernobyl accadde nel corso di un esperimento (gli specialisti parlano infatti di “esperimento di Chernobyl”) volto a verificare la possibilità di alimentare i sistemi di sicurezza durante il rallentamento del turbogeneratore successivo al distacco dalla rete. Tale prova fu affidata ad un tecnico non specializzato. Inoltre, durante la fase sia preparatoria dell’esperimento che nel corso della sua realizzazione furono commessi numerosi errori di manovra e gravi violazioni a precise norme procedurali. Va comunque chiarito che, malgrado gli errori di manovra e la volontà di terminare l’esperimento siano stati le cause iniziali del disastro, lo svilupparsi in maniera incontrollabile e le gravissime conseguenze di questo furono dovute alle caratteristiche di instabilità intrinseca a questa tipologia di reattore – particolarmente a bassa potenza – determinata da un elevato coefficiente positivo di reattività e dalla mancanza di un edificio di contenimento. Il reattore era stato portato ad una situazione di massima instabilità in quanto le barre di controllo non erano nella loro posizione prescritta (cioè 6-8 barre inserite contro il numero minimo di 30 previsto); d’altra parte, in tutto il circuito di raffreddamento si erano determinate condizioni prossime alla saturazione. L’improvviso arresto di quattro pompe di circolazione nel momento di attuazione dell’esperimento determinò una produzione di vapore molto rapida e, conseguentemente, un fulmineo aumento di potenza del reattore dovuto alla sua instabilità intrinseca (coefficiente di vuoto positivo). La produzione di vapore in alcune zone del nocciolo causò l’introduzione di una forte quantità di reattività positiva, tale da portare il reattore “pronto critico” alla rottura di alcuni canali di raffreddamento ed a far sbalzare di posizione la piastra-schermo superiore. Quest’ultimo evento, in seguito documentato dalle fotografie scattate dagli elicotteri, impedì alle barre di controllo di inserirsi e, tranciando tutti i canali di potenza, generò una nuova iniezione di reattività. In seguito ad una serie di reazioni chimiche esplosive si verificarono distruzioni delle strutture del reattore, l’espulsione di blocchi di grafite e di pezzi di combustibile, l’innesco di una serie di incendi nell’area degli edifici di centrale e l’incendio della grafite del reattore esploso. La combustione della grafite (ne bruciò il 10%) produsse una colonna di fumo che si elevò fino a 1200 metri di quota, dove i venti, sempre presenti a quelle altezze, contribuirono a disperdere la radioattività sull’Europa. Per quanto concerne le conseguenze sulla popolazione, i dati più attendibili sono quelli elaborati dal Chernobyl Forum, incontro internazionale promosso dall’AIEA nel 2003, cui hanno partecipato varie Agenzie delle Nazioni Unite (oltre all’AIEA, FAO, UN-OCHA, UNDP, UNEP, UNSCEAR, WHO), la Banca Mondiale, Russia, Bielorussia ed Ucraina. Questo rapporto è consultabile sul seguente sito dell’ONU: http://www.unscear.org/unscear/en/chernobyl.html. In estrema sintesi, i morti accertati nel corso degli eventi sono stati: 2 lavoratori della centrale per esplosione, 1 per trombosi coronarica, 28 soccorritori nel corso del 1986 a causa delle radiazioni assorbite, 19 soccorritori per varie cause legate alle radiazioni di cui 3 per leucemia, 15 fra la popolazione maggiormente esposta per tumore alla tiroide. Per quanto concerne le morti in eccesso presunte, ma non rilevabili statisticamente, sono: liquidatori 2200 su circa 200.000, evacuati 160 su circa 116.000, popolazione presente in aree a stretto controllo 1600 su circa 270.000; infine, fra la popolazione residente a largo raggio nella zona irradiata da 37 kBq/m² in su, il numero è incerto ma valutabile in circa 5000 su 5 milioni. Va sottolineato che, mentre per i lavoratori ed i soccorritori i dati non sono contestabili, le stime per i morti presunti, hanno subito parecchie contestazioni, in special modo dal Partito Verde europeo e da altre associazioni e gruppi ambientalisti. A prescindere dalla presunta validità dei dati presentati da questi gruppi (ovviamente, sempre basati su stime), le esagerazioni riportate da mass media e su Internet, è priva anche della minima credibilità, poiché basate solo su preconcetti e senza l’adeguato supporto di dati anche solo basati su stime. Concludendo, i dati accessibili sulle fonti accreditate, concernenti la radioattività attualmente presente nella zona del disastro, dimostrano l’abbassamento della stessa a livello di non pericolosità, anche se il terreno contaminato non potrà essere utilizzato per agricoltura ed allevamento, ma è in costruzione una gigantesca centrale solare attorno al nuovo sarcofago della centrale che ha coperto quello costruito dopo il disastro, costruito in acciaio ed in grado di resistere almeno cento anni. Va anche sottolineato che gli altri 3 reattori della centrale di Chernobyl sono stati spenti nel 2000, quindi hanno continuato a funzionare fino a quell’anno. Aggiungo che, recentemente, seguendo lo spostamento dei Lupi, animali notoriamente erratici e capaci di coprire grandi distanze, i ricercatori ne hanno documentato lo spostamento anche a 300 Km dalla zona evacuata: questo ha portato alcuni “catastrofisti” a diffondere notizie (è stato fatto persino un documentario italiano!) circa Lupi radioattivi o comunque mutanti!

3) Fukushima. Quanto accaduto a Fukushima, è stato causato da uno tsunami che ha provocato danni significativi. È necessario conoscere che cosa sia uno tsunami: al centro degli oceani si ergono le dorsali medio oceaniche, lunghissime catene da cui erutta continuamente nuovo magma (roccia fusa) che “spinge” sotto i continenti il fondo oceanico, fenomeno (qui descritto molto semplicemente a scopo didattico) che viene definito subduzione della litosfera (esistono anche altre modalità di subduzione, ma questo esula da quanto qui discusso). Come nel caso dei terremoti, causati dalla dislocazione delle zolle (deriva dei continenti), spesso l’attrito fra le masse accumula energia che si libera attraverso onde d’urto. Quando l’onda d’urto si verifica sott’acqua, si forma un’onda di dimensioni rilevanti (tsunami). Come nel caso dei terremoti, sappiamo dove possono verificarsi, ma non quando. Basandosi sui dati storici elaborati statisticamente, i giapponesi avevano eretto barriere alte fino a sedici metri, l’onda è stata più alta (con altezza variabile a seconda della costa, in alcuni golfi fino 24-30 metri). Ciò ha causato un disastro significativo: il numero di morti e dispersi rasenta i 18.000, è scoppiata una diga per l’aumento improvviso della pressione, provocando la maggior parte di morti e dispersi, sono esplose due centrali turbogas, è bruciata una raffineria (ricordate il fumo nero che era possibile vedere nei telegiornali). Nell’area della centrale di Fukushima Daiichi era stata realizzata una barriera alta 6,5 metri, l’onda di tsunami è stata di circa 14 metri; 4 reattori nucleari si trovavano su un terrapieno di 10 metri, altri 2 su un terrapieno alto 13 metri. I reattori nucleari, come previsto dal progetto, si sono spenti in 20 (venti) secondi; i reattori 4, 5 e 6 erano già spenti per manutenzione. A questo punto la circolazione dell’acqua di raffreddamento doveva essere garantita dai generatori di emergenza, alimentati da motori diesel ma quelli ubicati sotto il livello raggiunto dall’acqua sono stati resi inattivi da questa che li ha sommersi. I generatori ubicati al di sopra del livello raggiunto dall’acqua hanno funzionato regolarmente, ma lo tsunami ha travolto i grandi serbatoi di gasolio, oltre a distruggere tutti i collegamenti con la rete elettrica. Nei reattori 1, 2 e 3, ormai privi del raffreddamento di emergenza, la temperatura è salita fino a 900-1000 gradi e le barre di zircalloy (la lega di cui sono fatti gli elementi di combustibile contenitori del pellet radioattivo di uranio e plutonio, che continuava ad emettere prodotti di decadimento), hanno iniziato ad ossidarsi liberando grandi quantità di idrogeno. In condizioni normali l’acqua si scinde in idrogeno ed ossigeno a 3500 gradi ma, in presenza del catalizzatore zirconio, la scissione è avvenuta alla temperatura appunto di 800 gradi. Per contenere l’aumento della pressione nel contenitore del nocciolo dei reattori i tecnici hanno deciso di liberare il vapore contenente idrogeno ed anche i prodotti di fissione più volatili. L’idrogeno è 14,4 volte più leggero dell’aria e in condizioni normali si sarebbe disperso ma in questo caso si è raccolto nella parte superiore degli edifici dei reattori, dove si è ricombinato con l’ossigeno. Come sappiamo già dai tempi del liceo, quando tale ricombinazione avviene sopra i 550 gradi, si verifica in maniera esplosiva, infatti si parla di gas tonante. Le esplosioni che si sono verificate, sono state dunque esplosioni chimiche e non nucleari. Questo ha portato alla distruzione della parte superiore degli edifici 1, 3 e 4 ed alla liberazione di una rube radioattiva che ha reso critica una zona di circa 22 km di diametro. La nube si è espansa sopra l’Oceano Pacifico, verso il Nord America e l’Atlantico. Il massimo registrato in Italia, misurato presso il Centro Ricerche Ambiente Marino dell’ENEA (Pozzuolo di Lerici SP), è stato di un quinto della radiazione di fondo che ci colpisce ogni giorno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nella zona dei 22 km, gli effetti a lungo termine (neoplasie) imputabili alle dosi ricevute risultano non rilevabili rispetto alle fluttuazioni statistiche di “fondo” delle patologie oncologiche. Tra gli oltre 33mila lavoratori della centrale ed impegnati a Fukushima nei mesi successivi all’incidente, non sono stati registrati casi di sindrome acuta da radiazioni; vi è un rischio ipotetico di tiroiditi autoimmuni ed ipotiroidismo in 13 lavoratori con elevata esposizione alla tiroide; sono assenti i rischi di patologie cardiovascolari da radiazioni (forse da stress). Ad oggi nessun caso di neoplasia imputabile a radiazioni si è verificato; tra i 174 lavoratori esposti a più di 100 mSv (il doppio di quanto è consentito in un anno dalla normativa), potrebbe esserci un rischio, ma è difficilmente correlabile.

Per quanto concerne il riversamento in mare, causato in gran parte da errori della TEPCO (ossia la società che gestisce gli impianti), la quantità di liquidi radioattivi corrisponde a quella riversata ogni anno a Southampton (il cosiddetto dumping: ossia il riversamento in mare, praticato fino ad alcuni anni fa, dei liquidi di scarto provenienti dalle centrali inglesi, dalle coste della cittadina di Southampton), ossia 60mila tonnellate di acqua. Considerando che espressi in volume sono 60mila metri di acqua, se divisi in contenitori di 2m di altezza occuperebbero non molto di più di 3 ettari. Per confronto l’Oceano Pacifico occupa un terzo del Pianeta come superficie ed ha una profondità media di 4000 metri. Per quanto i danni nei pressi delle coste della regione di Fukushima siano stati significativi, e dove le perdite continue impediscono la pesca e l’allevamento, l’acqua radioattiva si disperde nell’oceano Pacifico; qualunque notizia di oceani contaminati e radiazione che giunge sino in America, con tonni e salmoni radioattivi è completamente falsa: l’aumento di radioattività nell’oceano è trascurabile ed inferiore alla radioattività del carbonio 14 e potassio 40 naturalmente presenti in mare. Anche considerando solo la regione in prossimità delle coste della Prefettura di Fukushima, le perdite dei reattori ammontano a meno di una parte su 100mila della radioattività presente. È vero che alcuni reattori si sono fusi parzialmente, ma i danni, sia pur rilevantissimi, sono confinati all’interno degli impianti. In conclusione, mi sembra il caso di sottolineare che, specialmente nel caso di Fukushima, per rispondere allo stato di ansia della popolazione, addirittura di vero terrore delle radiazioni, in questo fomentata dai mass media, si sono estese le norme di sicurezza, rendendo illegali quantità di radiazioni al di sotto della soglia del pericolo, spostando forzatamente una parte della popolazione stessa. Ciò ha causato stati di ansia tra i cittadini allontanati per lunghi periodi dalle loro abitazioni ed ha provocato malattie psicosomatiche e morti da depressione e da stress nella parte più sensibile della popolazione, ossia anziani e persone affette patologie, a causa di un meccanismo che gli psicologi definiscono da rafforzamento.

Anche quanto riportato dai mass media riguardo i rifiuti delle centrali non corrisponde allo stato dell’arte, in quanto la tecnologia volta al confinamento è matura e solo per motivi politico-elettorali non è ancora stata stabilita l’ubicazione del sito nazionale in Italia. Inoltre, le centrali autofertilizzanti, già in costruzione (la prima è stata il Superphoenix di Cres Melville, frutto di una cooperazione franco-italo-tedesca, che ha completato il suo ciclo vitale senza problemi, comunque superata come tecnologia, quelle attualmente disponibili sono raffreddate a piombo e dotate di sistemi di sicurezza basati su leggi fisiche, quindi a sicurezza intrinseca) porteranno ad una significativa riduzione dei rifiuti a più lunga emivita. Inoltre, è in avanzata fase di realizzazione un progetto partito quando il professor Rubbia era presidente dell’ENEA, volto alla distruzione dei rifiuti restanti. Questo progetto, in estrema sintesi, prevede il “bombardamento”, effettuato con un miniacceleratore, dei rifiuti radioattivi provocando il rilascio di energia dagli stessi ed abbassandone nel contempo la radioattività. La sua realizzazione sta avvenendo nel Centro Ricerche Casaccia dell’ENEA.

Per concludere, è necessario sottolineare che, oltre a fornire una ricostruzione degli eventi perlomeno distorta, i mass media hanno portato la popolazione dei Paesi occidentali a ritenere pericoloso il nucleare ed a sottovalutare i danni sanitari ed ambientali causati dall’utilizzo massivo dei combustibili fossili che causano morti e malati accertati. In Europa, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2016 le morti causate dall’inquinamento sono state calcolate in 3, 7 milioni, la metà per il carbone.

Only fill in if you are not human

Gas naturale, nucleare, eolico, infrastrutture: l’intero sistema energetico del Texas ha fallito, ma la lezione da imparare è per tutti: a una domanda elettrica crescente e qualitativamente sempre più esigente si è contrapposta un’offerta sempre più incerta e inaffidabile, con il risultato che il numero dei blackout è ovunque aumentato

Sarà interessante vedere nei prossimi mesi se la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina a colpi di dazi su centinaia di beni e servizi tracimerà anche nell’energia, dopo la minaccia di Pechino di colpire anche le importazioni di petrolio…

Nel 2020 le società energetiche hanno adottato misure inedite per riposizionarsi nella transizione energetica, un cambio di passo verso la decarbonizzazione dell’economia.

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